27 de outubro de 2006

Joyce la sottile invidia di Lacan e Derrida






Joyce la sottile invidia di Lacan e Derrida

Nadia Fusini
Joyce non é uno scrittore come gli altri. Tale Iapalissiana veritá appare manifesta in ogni sua opera. La questione è: in che differisce da gli altri scrittori? E in che senso la sua differenza lo mette au dehors de la lirtterataure, quasi in conflitto con essa? O dovremmo riconoscere che tale differenza è un superamento rabelaisiano? Una pantagruelica risata che afonda nel mare del ridicolo, l’atto stesso dello scrivere? La differenza, sappiamo, non è questione di più o meno; né di essenza. Non é, voglio dire, che Joyce sia più o meno scrittore di un altro. Ne che per essenza si distingua da chi, pur sempre scriittore, lo sia in modo più rispettoso delle regole e convenzioni. No, con Joyce, è piuttosto una questione di qualità e di carattere – definire iquali non é affatto facile. In modo diverso ci provano - a definire l’operazione di scritura joyciana - due estudiosi non di letteratura: un filosofo il primo, uno psicoanalista il secondo, che con l’ombra di Joyce, dell’Ulisse e soprattutto del Finnegans Wake-si confrontano. Mi rifensco a Jacques Lacan, il quale dedicó allo scrittore irlandese un corso di lezioni dal novembre 1975 al maggio del 1976. L’edizione italiana, per l’impeccabile cura di Antonio di Ciaccia, esce ora presso Astrolabio col titolo ll seminario Libro XXIII Il Sinthomo (pagg. 246, euro 21). Essa include le lezioni del seminario dell’anno 1975-76; in appendice, la conferenza che Jacques Lacan tenne alla Sorbona II 16 giugno del 1975, in apertura del V Simposio internazionale dedicato a James Joyce, I’intervento di Jacques Aubert al seminario di Lacan, piu le sue Note di Lettura (sempre investe di addetto ai lavori joyciani),e in fine le Note passo passo di Jacques-Alain Miller, che Interviene nella funzione di erede e solo “stabilizzatore” del testo del genero Lacan: in somma, nei pan di ocluí che dice l’ultima parola, del testimone oculare, o piuttosto auricolare, che con fare propietario ci assicura deli’esistenza di Lacan in carne ed ossa... Del quale si definisce il”bastone”.che sarebbe poi, edipicamente, la terza gamba... (L’insieme di tali personali relazioni lui li chima anche ”effetti di vincolo”: definizione quanto mai appropriata di un’eredita tanto contestata!). L’altro appassionato lettore di Joycé un altro Jacques di nome, di cognóme Derrida. Siamo questa volta a Francoforte, sampre a un Simposio che nel fatidico mese di giugno viene dedicato a James Joyce-questa volta è l’anno 1984. Ma già due anni prima, nel novembre 1982, a Parigi, questo Jacques si era lasciato andare a un breve e improvvisato discorso su Joyce, sollecitato sempre da quel Jacques (ancora!) Aubert già menzionato. (1 due intervente: Ulisse gramófono, Due parole per Joyce, sono reperibili presso il Melangolo, per la cura di Maurizio Ferraris. pagg. 143, euro 15.) Se ve li segnalo. questi due Jacques (Derrida, Lacan), é perché nell’appassionata e appassionante attrazione, che li avvince al primo e unico Jacques-James, e cioé Joyce ,che si tratti di tranfert, o di platonica seduzione, si dimostra la potenza speciale della parola joyciana. Per comprendere Íaquale entrambi arrischiano e impegnano la loro sofisticata attrezzatura intellettuale, sfoderano le proprie straordinarie capacita retoriche, per alla fine dichiarare comunque, che Joyce è il migliore in campo. E il solo scrittore. E se i due Jacques, un filosofo, e lo psicoanalista, lo seno un poco (scrittori) é perché lo “imitano”. L’avvincente legame che il filosofo e lo psicoanalista dimostrano interesserà senz’altro i joyciani del mondo united (e sono tanti i suo fan); ese tanto mi da tanto, gli scrittori viventi, che se vigili e svegli non póssono non rendersi conto che é un problema venire dopo di James Joyce. E piú in generali interessera i lettori tutti, sia quelli che abbiano superato le difficoltà di leggerlo, e soddisfatti siano giunti in vetta; sia quelli che frustrati abbiano ab- - bandonato l’impervia scalata. Colpisce come i nostri due Jacques (Lacan, Derrida) si apprestino alla conquista della vetta Joyce per una spinta, direi, di invidia in tanto, constatano una maitrise, una superioritá magistrale dello scrittore irlandese, che consiste nella sprezzante sicurezza con cui fin dall’inizio Joyce si pone e si impone come autore e autorita insieme. Non è salo por scherzo, ma seriamente, che fin dall¨inizio Joyce rivendica persè una immortaltà sostanzialmente legata aIl’ottusità dell’accademia; a quello che Lacan altrove chiama el disperante, ottuso sapere universitario. E non c’é dubbio, constata Lacan, che ci riesca. Joyce ha reso schiava l’accademia, e si assicurato cosi più o meno I’eternitá. Verra letto, verrá commentato, verra spiegato, nei secoli dei secoli. In questo senso, rincara Derrida, lo scrittore Joyce non é affatto un sognatore né un idealista; è un produttore. Un calcolatore. Se è vero come é vero (e Joyce lo capisce presto) che lo scrittore nasco dopo l’opera, e dunque non é il libro che ha bisogo di lui, ma il contrario; se é vero come é vero che é a partire dal libro che esiste lo scrittore che lo ha scrito, Joyce fará in modo che il libro che scrivera sia indecifrabile, cosi piegando nel secoli a vennire i professori universitari a chiosare quella immensa costruzione linguistica che ha il suo nome. Al servizio del suo nome, questi illustr isignori porteranno non soltanto acqua al mulino del suo immenso, ultramondano egotismo, ma riveriranno nel libro che distrugge la lingua stessa in cui si scrive la piu grande sfida che uno scrittore abbia lanciato contro di sé. Contro lasignificazione tutta. Per questo, mentre tra sé e sé e di fronte ai proprii allievi si trastulla con Joyce, l.acan ha ragione a chiedersi: a partire da quando si è pazi? E una domanda impegnativa, che insorge evidentemente nelle vicinanze di qualcuno che ha sfiorato tale condizione. Ma l’ha schivata; perché a partire da quando qualcuno ha preso a leggerlo. Joyce non é stato più pazzo. Anche se scrivendo e rappresentandosi nella propria opera come il figlio, da un certo punto in poi si é creduto il Padre, e cioè Dio stesso. L’impegnativa liturgia che viene riservata al corpus joyciano riguarda. ripeto, non soltando professori uníversitari, e difatti qui vi parlo di Derrida e di Lacan. E in un certo senso, del loro rispettivo “complesso di Joyce”. Derrida confesas di provare un sentimento per Joyce che é piuttosto un ‘risentimento”. Un’ammirazione, che non é amore. Non è sicuro di amare Joyce, afferma. Né di amarlo sempre. Ma come dimenticarsi di lui? Di quell’atto babelico con cui ha dichiarato guerra a noi poveri lettori? Perché come altro definire la veglia di Finnegan? Se non come una guerra?O come una risata? Come si fa a non sentire la sua (di Joyce) risata, la sua vendetta contro il dio di Babele? E che vuol dire leggere Joyce? Non ha ancora cominciato a leggere Joyce, riconosce Derrida ,purscrivendone. E rivela: «Ogni volta che scrivo, un fantasma di Joyce é all’arrembaggio». E la potente macchina di lettura,. con tanto di firma e controfirma al servizio del suo nome, che grazie alla propria opera Joyce ha costruito,é quel brevetto, che fa impressione a Derrida. Lo riconosce: c’é invidia. Invidia per una capacita di programmazione e di realizzazione di un potente progetto di mondializzazione della propria opera, che forse, al livello della filosofia universitaria, Derrida stesso ha tentato. E specialmente in Amenica, ha portato a buon fine, pare. Mentre nel caso di Lacan, a che gli serve Joyce? Perché legge Joyce? Perché a Lacan, come del resto a Freud, piacciono gli scrrttori E gli piacciono perché possono chiarire, esemplificare quello strano funzionamento del pensiero che, già Freud l´aveva detto, e Lacan lo ripete e sintetizza così: «L’inconscio é strutturato come un linguagio”
Quanto a giochi lingitistici, doppi sensi, battute di spirito, e così via, sappiamo bene quanto Joyce ci si diverta. E quanto Lacan ne sia appassionato, e non por capriccio; ma perché é aquel modo che qualcosa parla, che altrimenti non puo, non sa parlare. Non é i1 percorso lineare, grammaticale, sintattico che-può intonarci a quel che non fa che smarrirsi, perdere la strada, ingarbugliarsi, a quel che si lega e si scioglie e insieme si sfalda. si sfilaccia. E un esercizio del pensiero, quello che richiede Lacan, che non tutti .sopportano, poiché mette in crisi, prese trppo nette, fa saltare i ponti, e su un terreno minato non tutti amano passeggiare. Naturalmente con Joyce, quanto a giochi linguistici, Lacan va a nozze. Ma non si ferma qui. Lui si chiede perché Joyce scriva. E chiaro a Lacan che serivere é nel caso di Joyce un sintomo. Solo che con la parola “sintomo” ora Lacan non intende più, con Freud, quell’azione che nella radice greca del termine indicava una caduta, un inciampo. E riprende piuttosto la parola secondo l’antica grafia francese e la scríve così: sinthome, perché nel pronunciarlo in francese sfumi in saint’homme, evocando nel suono la parola “sant’uomo”. Che potrebbe essero quel sant’uomo, o povero cristo del padre; o perfino S. Tommaso d’Aquino. Lacan parla addirittura di sinthome madaquin, in cui dovrebbe risuonare per l’appunto Saint Thomas d´Aquin. Del resto, sappiamo tutti quanto Joyce avesse sbavato su quel sant’uomo. Se é un Sant’uomo che col sinthomo viene alla mente di Lacen, é perché in tutta la opera di Joyce lui vede lo sforzo di liberarsi della carenza del padre, e farsene un altro grazie al proprio nome, alla propria firma, alla propria opera. Lacan ci fa scoprire, in altre parole, una veritá che noi joyciani patiti avevamo colto nell’opera a livello tematico: non avevamo dubbi che l’Ulisse testimoniasse del fatto che Joyce si fa carico del problema del padre,e inque1rapporto resta preso, purrinnegandolo. E avevamo letto questo come il suo sintomo. Non avevamo però fatto iI passo ulteriore, che Lacan ci fa fare: e cioé , che se Joyce si salva. é perché Joyce fa di sé un libro.

25 setternbre 2006 LA REPUBBLiCA

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